Michele Gazich
Lettera a Claudio
2021
di Michele Gazich
LETTERA A CLAUDIO
Vent’anni fa una sera di maggio suonavo il mio violino su di un piccolo palco, aprivo un concerto di Claudio Lolli. Era una Festa de L’Unità, ma c’era poco di festoso: era una festa triste di quella tristezza molto lombarda, tutta interiore, che di rado si libera in pianto. Io, tuttavia, ero felice di incontrare Claudio, che mi aveva dato tanto attraverso le sue canzoni. Mi ero ripromesso di ringraziarlo. Quella sera accompagnavo con il mio violino Andrea, un ragazzo innamorato dei songwriter statunitensi; Claudio era a sua volta accompagnato dal chitarrista Paolo Capodacqua. Alla fine del nostro breve set, Paolo e Claudio mi chiesero se potevo suonare una canzone o due anche con loro. Accettai, incredulo. Improvvisai tutto: a mia memoria in maniera un po’ caotica e disorientata ma ci misi tutto il cuore. Magari la memoria mi inganna e fu tutto più bello di come lo ricordo. Certamente vent’anni fa ancora non sapevo di essere bravo sul violino. Mi sembrava sempre un miracolo essere accolto e ascoltato e accoglievo ogni collaborazione con la gratitudine di un orfano a cui viene dato un tetto. Ciò che suonai quella sera evidentemente piacque a loro e mi tennero sul palco infine non per due canzoni, ma per tutto il concerto! Guardavo e guardavo Claudio cantare e recitare con la percezione di vivere momenti irripetibili. Il poeta teneva in mano un libriccino e da lì leggeva con un misto di coinvolgimento profondo e di rassegnata disperazione che mi strappava il cuore. Ricordo il cupissimo e sconsolato “MAH” che inframmezzò quella sera al testo della sua storica canzone Borghesia: “Vecchia piccola borghesia / Vecchia gente di casa mia / Per piccina che tu sia / Il vento un giorno forse MAH / ti spazzerà via”. Ricordo anche la dolcezza con cui Claudio mi salutò, ricordo il suo abbraccio, la sua barba morbida quando ci scambiammo un bacio. Quella notte mentre guidavo tornando a casa ero turbato, quasi sconvolto da tanta forza e da tanta fragile dolcezza.
foto di Enrico Fappani
Il 29 febbraio del 2020: il mondo stava per cambiare, stava per chiudersi tutto. Molto non ha più riaperto. Ero a Venezia, una Venezia già deserta, anche se, ufficialmente, non era ancora stato indetto il lockdown. Mi sentivo un rifugiato, vivevo allora in una silenziosissima casa nel centro della città. Raramente, nel corso del giorno, una voce isolata o il rumore dei passi di qualcuno spezzavano la calotta plumbea del silenzio inquietante di quei giorni. Cominciai a pizzicare il mio violino, camminando per la casa, e a canticchiare delle parole: “Claudio, è vero / È ancora vero / Abbiamo paura del buio / E anche della luce” e, nello spazio di un mattino scrissi, in forma di canzone, quella Lettera a Claudio, che da tanti anni volevo scrivergli. Il giorno dopo tornai a casa e mi precipitai in studio di registrazione per fissare una bozza della canzone. Poi tutto si fermò. Alla televisione ogni giorno si celebrava il rito della conta dei morti. Una delle mie poche consolazioni era riascoltare Lettera a Claudio. La mandai a Paolo Capodacqua che, isolato nella sua casa di Avezzano, nell’aprile 2020, mi fece l’onore di registrare una parte di chitarra piena di affetto e di poesia. Per tutto il 2020 e nei primi mesi del 2021 ho continuato ad ascoltare e a riascoltare la canzone, a perfezionarne l’arrangiamento e il mix. Non avevo fretta. Non ho mai avuto fretta. Sentivo che dovevo custodire questa canzone. Poi, finalmente, all’inizio del marzo del 2021, pur con le difficoltà che il viaggiare ancora includeva, partii. Paolo aveva trovato un piccolo teatro. Sentivo che, per me e per tanti, dovevo registrare il video di Lettera a Claudio in un teatro vuoto, come sono sono stati tutti i teatri, per troppo tempo. Ci siamo dunque seduti su delle panche nell’attrezzeria del teatro e, circondati da oggetti di scena, da costumi, fari in disuso, maschere e burattini, abbiamo risuonato le canzone e celebrato, quasi come carbonari, il sacro rito della musica e della parola, nel ricordo di Claudio Lolli.
foto di Enrico Fappani