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IL MIO TERZO DISCO OVVERO UN VIAGGIO IMMAGINARIO
di Cristina Nico
Se ho deciso di chiamarlo solo con il mio nome, questo disco, è perché è il resoconto di una discesa dentro me stessa a tratti inclemente e dolorosa, a tratti divertita e ironica, comunque urgente e necessaria. La fine – o una lunga pausa – di legami che credevo indissolubili; la resistenza di altri che hanno dovuto comunque attraversare grandi crisi; l’economia emotiva e relazionale cui ci ha in parte abituatə la pandemia; il bisogno di imparare a guardarsi allo specchio con onestà ma anche con benevolenza; la “persistenza della memoria” nel bene e nel male che ciò comporta; le paure e gli ennesimi disincanti collettivi ma anche gli entusiasmi per l’avvento di qualcosa di rinnovato, consapevole, maturo e fanciullesco allo stesso tempo; l’unico modo che ho di partecipare a certe battaglie, ovvero mettendoci la faccia e il mio vissuto…
foto di Marina Mazzoli
Forse alla fine suonerà solo come il disco di un’ex-ragazza degli anni Novanta, che butta in un unico calderone, insieme ai propri slanci e casini, la poesia francese dell’Ottocento e i canti delle nonne calabresi, il grunge di Seattle e il trip hop di Bristol, gli echi d’Africa, il blues e una immaginaria scena rap marsigliese. Giulio Gaietto, il producer, mi ha assecondata, anzi incoraggiata a rendere i chiaroscuri delle canzoni senza paura di muovermi fra diversi umori musicali, e allo stesso tempo è riuscito a dare al tutto un sound organico e capace di mantenere l’urgenza primigenia dei brani. Giulio è un polistrumentista ma prima di tutto un bassista con un senso del groove incredibile. È anche per questo che nel disco c’è un piglio nervoso, guizzante, caldo che tiene assieme la matrice folk-rock, l’attitudine punk e l’approccio elettronico-minimal di alcuni provini, in cui l’uso di loop e campionamenti era funzionale a rendere volontà ipnotico-ossessive (Omissis, Les fleurs du bien). In fase compositiva avevo recuperato – perché di inventato completamente non c’è nulla, ormai – la voglia di giocare, di inserire rumori d’ambiente o addirittura di partire da quelli per la composizione di un brano (vedi le zampette del mio cane sul parquet in Dog’s walk), qualcosa che avevo sperimentato nelle mie prime registrazioni su cassette. Il drumming di Federico Lagomarsino ci ha aiutato non solo a mantenere l’impronta rock ma è stato in alcuni casi la base di partenza (Être soi-même=être un autre), in altri una sorta di inconsueto arrangiamento arrivato dopo ad impreziosire i brani (La sorgente). Le cordofonie di Roberto Zanisi hanno fatto qualcosa di più che dare il tocco world music (definizione che peraltro non amo), in alcuni casi si sono letteralmente avvinghiate alle tessiture di chitarra e di basso creando alchimie hard rock e quasi noise, vedi le chitarre portoghesi in The idiot not savant alt version e il guimbri ne Il bisogno di essere migliore, oppure sono diventate colonna portante per una voce che voleva consolare (il cumbuš ne La sorgente).
foto di Marina Mazzoli
Sono viaggi prevalentemente immaginari e attraverso la musica quelli che abbiamo fatto, restando di fatto sempre in una Genova che non è solo mare e caruggi, è anche periferia, è poesia post-industriale. Mi piace pensare a queste canzoni come a scritte sui muri di unə street artist di origine contadine, un po’esistenzialista e un po’cazzarə, che gioca con i codici e clichés di vari linguaggi.
Non credo sia definibile come un lavoro “intimista”, tutt’altro. Nonostante siano altrettante tappe della discesa e parzialissima risalita dai miei inferi personali, o forse proprio per questo, queste canzoni sono tra le più dirette che ho scritto e credo che moltə potranno riconoscervisi.
Il disco si apre con un’invocazione ad una luna sdoppiata che riflette il conflitto interiore (Double Moon) e si chiude con il canto malinconico ma semipacificato dell’ Idiot Not Savant che ha compreso socraticamente di sapere di non sapere nulla, se non che tornerà presto, come tutti, alla terra, alle stelle. Prima di allora però il percorso non è mai davvero concluso, è circolare, e a volte si rischia di essere catapultati all’indietro, a volte si è stanchi di essere irrimediabilmente se stessə, di non sapere uscire dai propri loop e dall’incomunicabilità, a volte invece ci si imbatte in oasi che restituiscono la frescura e la pace, dove si ritrovano la meraviglia e l’incanto di uno sguardo bambino.
Il viaggio finisce e ricomincia, continuamente.
foto di Marina Mazzoli