Equipe 84
STEREOEQUIPE

LP Ricordi, 1968

di Marco de Annuntiis

Le registrazioni di questo disco sono state realizzate negli studi della Dischi ricordi s.p.a. su una modernissima apparecchiatura a 8 piste che permette di ottenere una particolare pluridimensinalità delleffetto stereofonico.(note di copertina)


STEREOEQUIPE disco del mese? Anche poco. È il disco di un’era. Nemmeno di un anno. Esce nel 1968 è vero, ma le sue radici sono ben piantate nel ’67 e non si può non notare che dopo quel famigerato ’68 un disco del genere non sarebbe più stato possibile; né per l’Equipe né per nessuno. Sì Vandelli & co. continueranno ad inanellare ancora una manciata di successi per una manciata di anni (Tutta mia la città, Pomeriggio ore 6, Una giornata al mare, Casa mia..) tra partecipazioni al Cantagiro, a Sanremo, a sigle televisive; ma saranno sempre episodi che non riusciranno ad esprimersi nella formula più compiuta di un album. Un concept-album per l’esattezza, tra i primi esempi italiani del genere insieme al coevo TUTTI MORIMMO A STENTO di De André, cui l’accomuna la struttura che lega le canzoni con interventi orchestrali strumentali. In entrambi i casi l’unico momento di pausa, ça va sans dire, è quello fra il lato A e il lato B delle due facciate. Ma se il barocchismo di De André è colto, elitario e lugubre quello dell’Equipe è pop, colorato e psichedelico.

Si chiama “picco di Hubbert” il momento l’estrazione del petrolio raggiunge la curva massima prima che il flusso inizi a scemare. Ebbene nel biennio ’67/’68 l’Equipe è all’apice: si sono affrancati dalle svantaggiose condizioni della piccola Vedette del loro scopritore e padre-padrone Armando Sciascia (che ripiegherà lanciando i Pooh) per approdare alla Ricordi, di cui diventano immediatamente il gruppo di punta e che investe appositamente per loro nell’acquisto del primo registratore multitraccia a 8 piste di cui proprio STEREOEQUIPE documenta il battesimo.

Ma è importante capire come l’Equipe in questa fase non sia solo un gruppo musicale bensì un vero e proprio fenomeno di costume: nel frattempo si sono trasferiti a Milano e hanno aperto una boutique di moda beat in via Solferino, cui seguiranno 19 succursali in franchising sparse in tutta Italia. Sempre a Milano si trasferiscono tutti insieme in una villa liberty in via Bodoni dove transitano Jimi Hendrix, Keith Richards, Allen Gisnberg, Jerry Malanga, Andy Warhol, Anita Pallenberg: Maurizio, Victor, Alfio e Franco mangiano, dormono e suonano tutti lì, in quella che oggi viene ricordata come il primo esperimento di comune hippy in Italia.

Ma è un sogno che dura poco: all’inizio si tratta di quisquilie grottesche, come quando la boutique di via Solferino viene multata dall’amministrazione comunale per aver mantenuto all’ingresso la vecchia insegna ottocentesca “Drogheria”, cosa che a Vandelli & soci sembrava un doppio senso spiritoso. Poi il diluvio: l’arresto del batterista Alfio Cantarella per possesso di hascisc, la gogna mediatica, il bando dalla Rai, i cambi di formazione sempre meno stabili, l’obbligo di cambiare nome in Nuova Equipe 84 per non essere condannati alla damnatio memoriae, l’indecisione fra abbracciare una linea sperimentale ancora più ardita e la voglia di riprendersi il primato perduto nell’egemonia del pop senza mai riuscire ad eguagliare sé stessi: quando Vandelli abbandona la villa di via Bodoni ormai sono rimasti solo lui e i suoi strumenti musicali.  Per tutte queste ragioni STEREOEQUIPE resta il picco di Hubbert non solo della band, ma dell’intera epopea del beat italiano: non sarebbe stato possibile stargli dietro per nessun concorrente né per loro stessi, destinati ad essere superati a sinistra da nuove leve di cantautori di più ingombrante valore letterario e a destra dalla nascita del progressive rock che ridefinisce la natura dei gruppi musicale in declinazioni sempre più svincolate dalla forma-canzone. La tessitura del sound (e della voce) di Vandelli riesce invece a servire un menu che comprende i primi inediti di Battisti accanto ai primi inediti di Guccini, passando per obbligati adattamenti in italiano di brani stranieri di matrice talora oscura quanto altre volte celeberrima: il connubio non è solo strepitoso ma anche fluido, privo di alcuna contraddizione culturale.

Tutto il lato A raccoglie brani già usciti come singoli durante l’annata precedente, ma stavolta uniti fra loro da intermezzi strumentali che riescono a legare insieme anche i più lunghi salti di ritmica e tonalità. Gli interventi orchestrali vedono la partecipazione nientemeno che dell’orchestra della Scala di Milano, cosa che avrebbe dovuto rappresentare un vanto e invece non se ne fa alcuna menzione nei credits perché il 23enne Vandelli non aveva titoli accademici per dirigere un’orchestra.

Si parte con la battistiana Nel cuore nellanima: Mario Schifano aveva curato la copertina del singolo e torna a realizzare anche quella dell’album, che con i contorni a rilievo blu e arancioni mette ancor più in luce il look art noveau che caratterizza la band nel periodo di via Bodoni. Inutile la cover dei Dik-Dik – in realtà la base era stata registrata prima di quella dell’Equipe – come pure la ripresa dello stesso Battisti: è solo in questa versione che Nel cuore nell’anima è il più beatlesiano pezzo italiano di sempre.
Sempre di Battisti la successiva Ladro, brano probabilmente minore visto che Battisti non la inciderà mai, ma l’intervento di Vandelli al sitar lo rende un episodio memorabile e “cattivo” come i Rolling Stones di Paint it black. I cori vedono la partecipazione, non accreditata, dello stesso Lucio Battisti e della modenese Ambra Borelli.
È dallamore che nasce luomo fa parte dei brani scritti ma non firmati da Francesco Guccini perché non ancora iscritto alla Siae (cosa che in seguito darà vita a un raffreddamento dei rapporti e a una diatriba legale decennale): l’arrangiamento sostenuto dai cori in primo piano e dalla sonorità sognante della Rickenbacker a 12 corde rende evidente che comunque l’Equipe fosse l’unico gruppo in grado di reinventare il songwriting di Guccini con lo stesso metodo che i Byrds di David Crosby e Roger McGuinn applicavano alle canzoni di Bob Dylan.
Nel ristorante di Alice (firmata da Vandelli con la premiata ditta Ricky Gianco/Gian Pieretti) è un trionfo di tastiere analogiche (mellotron, piano elettrico, organo) che si ricorda per un aneddoto particolare: la coda strumentale copia – per stessa ammissione di Vandelli – un assolo di Jimi Hendrix, il quale ascoltando il disco nella villa di via Bodoni rispose con un commosso abbraccio: “chiunque altro mi avrebbe dato un pugno”, ebbe a commentare Maurizio ricordando l’episodio.
Da lì si arriva, con un martellante riff di piano che passa continuamente da 4/4 a 3/4 a 2/4 al capolavoro 29 settembre: la voce del giornale radio è un’idea di Vandelli (alla quale Battisti era contrario) che inserisce nell’arrangiamento un elemento sonoro nuovo che entra a far parte a tutti gli effetti della canzone; un po’ come sarà il lancio del missile in Space Oddity o il temporale in Riders On The Storm. Anche qui la successiva ripresa da parte dell’autore non potrà essere altro che una curiosità per battistiani completisti: la versione dell’Equipe (immortalata anche in un “videoclip” dalla partecipazione al musicarello I ragazzi di Bandiera gialla” è quella definitiva ed è probabilmente il pezzo che più di ogni altro ha fatto guadagnare a STEREOEQUIPE la fama di “Sgt. Pepper italiano”. 
Chiude la facciata Un anno, cover adulterata di No Face No Name No Number dei Traffic: l’arrangiamento a onor del vero non compete con quello originale ma l’apertura psichedelica è garantita dalla tessitura della voce di Maurizio, un autentico pezzo di bravura. Il brano fu anche sigla della trasmissione radio Gran Varietà.

Sul Lato B invece tutti brani inediti, che non avevano mai visto la luce prima dell’LP:
Un angelo blu, cover degli Honeybus, gradevole anche se condotta in porto col pilota automatico.
Per un attimo di tempo, ancora un inedito di Guccini (ma firmato da Vandelli) che tenta la carta della celebrazione dell’LSD in maniera a dire il vero un po’ troppo naïf per competere con i modelli californiani di riferimento: oltretutto Guccini nel ’68 si era nel frattempo già iscritto alla Siae e nel corso degli anni non ha mai riscattato la firma del brano, cosa che lascia pensare che egli stesso lo considerasse uno scarto.
Certo in Hey ragazzo non si lascia riconoscere nemmeno la firma Mogol Battisti, qui votata ad un artigianato di imitazione british in quello che è forse  il solco più anonimo dell’album.
Tutto è solo colore, cover degli Small Faces che Vandelli trasforma in uno strano pastiche in cui la sua voce sembra voler rincorrere le stonature del suo sitar; il brano viene eseguito dall’Equipe anche nel musicarello collettivo Una ragazza tutta doro.
Intermission riff è una rivisitazione psichedelica dello strumentale jazz di Stan Kenton (all’epoca usato come sigla della trasmissione RAI  TV7) in cui Vandelli torna a sfogarsi col sitar.
Nella terra dei sogni è l’ennesimo capolavoro, rivisitazione barocca e vorticosa dell’originale degli Easybeats e forse l’unico brano che non avrebbe sfigurato sul Lato A.

Nel 1968 gli album a 33 giri (compresi gli album precedenti della stessa Equipe) non erano che raccolte di singoli, mentre negli album successivi -pur a volte pregevoli – saranno spesso proprio i singoli trainanti a mancare: STEREOEQUIPE resta un esempio di album perfetto, uno di quelli che hanno contribuito a definire la “letteratura” di un formato, un disco in cui anche i brani “minori” non risultano riempitivi e che non si può fare a meno di ascoltare tutto di un fiato.

Crediti
Maurizio Vandelli: voce, chitarre, sitar, mellotron, piano, organo, flauto
Franco Ceccarelli: chitarra, cori
Victor Sogliani: basso, cori
Alfio Cantarella: percussioni
Patrizio Janiello: basso (non accreditato)

Produttori: Maurizio Vandelli, Pier Farri, Alessandro Colombini, Vater Patrignani, Paolo Ruggeri (non accreditati).
Pubblicazione: 21 settembre 1968.
Registrazione: Studi Ricordi, via dei Cinquecento Milano.

Recommended Posts