Galoni

CRONACHE DI UN TEMPO STORTO

Freecom, 2023

di Alberto Marchetti

Scritto durante la pandemia, nel suo nuovo album Galoni ridisegna la geografia spaesata delle nostre incertezze, analizza la realtà drogata dalla velocità, dall’insensato consumo del tempo, dalla febbrile ricerca esterna di una irraggiungibile felicità, stigmatizza la distanza dai potenti, fa l’elogio della misura, della lentezza, della cura, dell’attenzione, della pausa consapevole, della riflessione virtuosa.

È la sua una scrittura ricca di metafore, è complessa e illuminante, efficace nel descrivere i paradossi del quotidiano, l’incapacità di vivere il presente con la stessa intensità che si dedica ai ricordi, l’esternazione virale senza vera conoscenza.

Tante le citazioni, dall’apocalittico La strada di Cormac McCarthy al Bulgakov de Il maestro e Margherita ne L’esercizio fisico di piangere, dal Carver dei racconti americani al Philip Roth della Pastorale, e poi ancora Woody Guthrie in Buoni propositi, Bob Dylan, il Cyrano e Guccini, il mare malato di Dalla, tutta la canzone d’autore italiana più nobile. Le musiche, figlie di una straordinaria vena melodica, hanno una struttura solida, briosa, coinvolgente, di pronta presa. Senza dubbio uno dei migliori album in circolazione.

 

GALONI, LA VITA CHE SI FA CANZONE
intervista di Alberto Marchetti

Il tuo nuovo album CRONACHE DEL TEMPO STORTO è molto legato al periodo appena terminato della pandemia e della reclusione forzata. Come l’hai affrontato nella provincia in cui vivi?

Penso, come tutti, che sia stato un periodo intenso, un tempo profondo che ci ha portato a delle riflessioni che probabilmente non avremmo mai fatto. A me è servito per scrivere le canzoni di questo disco che nascono in quel periodo di smarrimento collettivo e anche personale.

Cosa rappresenta la casa nel contesto dell’album? E per te?

A lavori ultimati mi sono accorto che “casa” era un concetto che ritornava spesso nelle canzoni: in ogni brano c’è una casa che il protagonista ricerca, ha abbandonato o vive. L’esercizio fisico di piangere racconta la mia storia dentro una casa; in Patrimonio dell’Unesco c’è un uomo che fa del tram una casa; in Non devi avere paura di niente (ispirato a The Road di Thomas McCarthy), un padre e un bambino vanno alla ricerca di una nuova dimora sullo sfondo di un paesaggio post apocalittico; La strada di casa ha la parola già nel titolo. Ho scritto allora a Andrea Calisi, un grande illustratore italiano e gli ho chiesto se poteva farmi una copertina con una casa irreale, metafisica, al centro di una natura dai colori speranzosi. Abbiamo vissuto la casa sia come una prigione sia come un luogo di protezione rispetto al mondo esterno, ma in questo disco non è solamente un luogo fisico, è anche un posto interiore in cui rifugiarsi per cercare conforto. C’è indubbiamente una geografia interiore i cui confini sono stati ridisegnati durante il periodo della pandemia che ci ha costretto a ricollocare le nostre capitali, spostare i punti fermi.

Come cerchi di salvarti la vita?

Sicuramente siamo nell’era della tecnologia e della secolarizzazione, e non si affermano nuovi modelli di spiritualità. Io porto avanti le mie passioni che non sono altro che il mio lavoro. Alzarsi la mattina e fare ciò che si ama sembra diventato un privilegio ormai, quando dovrebbe essere la normalità. Purtroppo abbiamo costruito una società fondata su principi che vanno nella direzione opposta. E rimaniamo assuefatti, inghiottiti da un vortice incomprensibile che a forza di frequentarlo ci appare come normalità. Come dice il mio collega medievalista Giovanni Lombardi “la cosa fragile è l’uomo, che pure si nutre di sensi di colpa, ma alla fine si autoassolve sempre”. La storia ci insegna che in passato il mondo è stato molto più complesso e crudele. Il problema è che non riusciamo a conservare una certa memoria storica e incappiamo sempre negli stessi errori. Siamo degli smemorati, alcuni per un fine, altri per pigrizia.

Gli aspetti tematici delle tue canzoni mantengono una costante per tutta la tua produzione sin dall’esordio del 2011 con GREENWICH.

Probabilmente è una narrazione che dura ormai da più di dieci anni. GREENWICH era veramente un disco geografico, l’idea nella copertina di spingere il meridiano era quella di spostare il punto di vista occidentale. Siamo abituati a cartine geografiche superate, mi diverte capovolgere i planisferi che ho in classe, far vedere il mondo da altri punti di vista. Non esiste geograficamente un nord e un sud, quelli esistono solo economicamente.

Come procedi nelle tue composizioni?

Non ho mai saputo spiegare come nasce una canzone. Molte escono fuori in pochi minuti, altre hanno bisogno di più tempo. Posso stare anche un mese su un verso ed è una tortura. Non entro in studio se non sono convinto completamente di tutti i passaggi del testo e della struttura musicale. Mi piace lavorare sul lessico, andare a cercare vocaboli che difficilmente possono stare in una canzone. La musica è anche un gioco, mi diverte. La forma canzone è ancora il tentativo migliore di rappresentare la realtà e tutto l’irreale che la abita, e lo fa in quattro minuti.

Numerosi i riferimenti letterari nei tuoi brani, Quanto ascolti, e quanto leggi, quanto mediti sulle opere dei grandi?

Quando resto rapito da una buona lettura capisco che ci sono ampie possibilità che finisca in una canzone. Anche giocando solamente con i titoli. Mi ricorda tra l’altro un diversivo che facevo con una collega quando lavoravo in una libreria di Roma. Non dovevamo farci beccare a chiacchierare dal titolare. E allora pensammo di comunicare con i titoli dei libri. Io ne alzavo uno, glielo facevo vedere e lei dall’altra parte della libreria mi rispondeva con un altro titolo. Era divertentissimo, uscivano discorsi surreali.

Sei professore di lettere in una scuola media e so che queste letture le riporti ai tuoi giovani studenti. Come vivono i giovanissimi questi tempi storti?

Ci provo, consiglio libri da leggere, spesso li regalo. Per quanto riguarda la musica è diverso. Mi rendo conto che apparteniamo a generazioni molto lontane. Sono cresciuti con sonorità e forme di canzone a tal punto diversi che proporgli un cantautore diventa difficile. Loro ascoltano parecchia musica nuova e soprattutto sanno a memoria canzoni dai testi lunghissimi, cosa per me impossibile alla loro età.

Vivono in due mondi, il reale e il digitale, che noi non abbiamo vissuto in gioventù e non conosciamo approfonditamente. Loro arrivano a certi angoli per noi irraggiungibili. Il problema è che il mondo digitale non è più un’appendice di quello reale, si stanno anzi scambiando di posto.

Trai ispirazione dall’osservazione del quotidiano, da incontri e ascolti casuali?

Le mie canzoni nascono solo in questo modo. Nascono quando qualcosa mette il seme: una situazione particolare, una chiacchierata in cui si dicono cose che mi colpiscono, incontri bizzarri, un evento straordinario. Nascono dagli altri, non mi sveglio mai la mattina con l’idea di scrivere una canzone, questo processo avviene se c’è una esperienza, di qualsiasi forma, che mi suscita qualcosa. È la vita stessa che si fa canzone e mai il contrario.

So che hai pronto un libro di racconti, ho sempre pensato dovessi cimentarti anche con la prosa. Quali sono i buoni propositi per il futuro?

È un po’ prematuro. La prosa è un altro sport, e guai pensare di saperlo fare solo perché si riescono a scrivere un po’ di canzoni. Mi sono divertito con una serie racconti sulla scuola il cui protagonista è un insegnante di lettere abbastanza sgangherato. Forse un giorno li pubblicherò, chissà. E magari anche una canzone. Questo potrebbe essere già un buon proposito.

(da Vinile 39, agosto 2023)

fotografia di Sofia Bucci

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